Maria S.S. dell’Addolorata di Lipari

27 Febbraio 2021 Chiese Lipari

di Michele Giacomantonio

Premessa

E sempre sulla Rocca riunificando tre chiesette preesistenti venne organizzata la Chiesa dell’Addolorata frequentata dalla nobiltà e dalla borghesia schierata e collegata con il vicerè di Palermo in difesa dei privilegi della Legatia apostolica conferita a Ruggero il Normanno con una bolla di Urbano II del 1098 mentre il Vescovo di Lipari sostenuto dal Papa, appellandosi ad un altra bolla di Urbano II, del 3 giugno 1091, affermava che la Diocesi di Lipari non faceva parte della Legatia ma dipendeva direttamente dalla Santa Sede.

 

La storia

La chiesa dell’Addolorata. È una delle più importanti delle Chiese di Lipari dal punto di vista storico e culturale-artistico, subito dopo la Cattedrale,. Sorge a nord est della città alta di Lipari, un tempo detto quartiere di Sant’Andrea, dall’unione di tre cappelle distinte. Di queste, probabilmente la più antica era una piccola chiesa detta di Sant’Andrea di epoca medievale (XV secolo) in seguito dedicata alla Immacolata Concezione e infine sostituita dalla chiesa di Maria Santissima Immacolata, quella, anch’essa del XV secolo, di Sant’Antonio Abate in seguito dedicata alla Madonna Vergine Santissima dell’Itria e quella della Resurrezione detta anche della Vergine dei Sette dolori.

Nel 1544 i tre tempietti subirono la sorte dell’intera isola: furono distrutti dai turchi di Ariadeno il Barbarossa che oltre a devastare città e contrade deportò in Turchia gran parte degli abitanti dell’isola, fra gli otto e i diecimila, tutti quelli che non avevano trovato rifugio fuori dall’isola prima dell’arrivo delle navi, o che non erano stati riscattati nel transito a Messina.

                          A sinistra una flotta di navi barbaresche e a destra una immagine di Adriadeno il Barbarossa.

All’indomani del sacco, Lipari riprende lentamente la sua vita. Ha due grossi problemi da affrontare: il ripopolamento e la ricostruzione e cioè riparazione del castello e espansione della città.

Carlo V imperatore di Spagna, manda, di concerto col viceré di Napoli, a cui le Isole Eolie facevano capo, il Comandante Consalvo de Armella , che si fermerà a Lipari dieci anni dal 1544 al 1554, ed avrà ”ampla potestate et autoritate di far quello che li piacesse circa la rehabitazione di deta cità”.

Nel 1545 giunge anche una guarnigione spagnola – che agli inizi è di cinquanta uomini ma al censimento del 1610 conterà, nell’insieme, comprese le famiglie, più di 250 persone. Essa risiederà stabilmente al Castello. Inoltre il Viceré di Napoli, il 21 gennaio del 1546, per aiutare il ripopolamento dell’isola, confermava, a nome del re, a chi fosse andato ad abitare a Lipari i privilegi, le grazie, le franchigie e le immunità che in passato erano state concesse all’isola e questo favorì l’immigrazione dalla Sicilia, dalla Calabria e anche da diverse città italiane. Di più fu garantito anche il non luogo a procedere per chi aveva conti in sospeso con la giustizia: un chiaro contributo ad un ripopolamento realizzato senza andare troppo per il sottile. Nel 1693 Pietro Campis afferma, nella sua Historia, che gli abitanti erano giunti a circa diecimila e “alla giornata si va sempre accrescendo”. Molti sono mascalzoni, molti fuggono da situazioni tragiche, ma c’è anche gente intraprendente che spera in una promozione sociale.

Molti dei militari della guarnigione spagnola si sposano con eoliane ed una volta terminato il servizio rimangono nell’isola dando origine a quei cognomi chiaramente spagnoli che ritroviamo ancora oggi. Il ripopolamento, quindi, fu forte ma non stravolgente.

I lavori per riparare e potenziare il castello cominciarono nel 1547 ma durarono a lungo anche se il grosso fu realizzato in due anni . E col ripristino delle fortificazioni furono prontamente restaurati anche i tre tempietti. Ma sul Castello oltre ai vecchi e nuovi abitanti di Lipari vi è anche, abbiamo detto, una forte guarnigione di soldati spagnoli che scelgono la cappella della Resurrezione come loro punto di riferimento religioso. Questa col nome di Cappella della Soledad, restaurata nel 1563, divenne così, nel corso del secondo cinquecento e, per tutto il seicento, la chiesa dei militari e delle loro famiglie che rimasero legati a Palermo ed allo statuto della Legazia apostolica che vigeva in tutta la Sicilia salvo che nella diocesi di Lipari che era direttamente dipendente dallo Stato Pontificio.

 

La Legazia Apostolica

 

 

 

 

 

 

 

 

Urbano II incorona Ruggero il Normanno Legato Apostolico.

Era la Legazia Apostolica un istituto che risaliva a papa Urbano II ed alla bolla Quia propter prudentiam tuam del 5 luglio 1098. In essa si costituiva Ruggero il Normanno come la maggiore autorità ecclesiastica della Sicilia con la potestà di nominare i Vescovi e di dirimere i contenziosi religiosi e di natura mista. E questo per ringraziare Ruggero di aver sottratto l’isola agli arabi e di averla restituita al culto della Chiesa di Roma. Il problema era che lo stesso Urbano II , qualche anno prima, con bolla del 3 giugno 1091 aveva concesso all’Abate Ambrogio la piena potestà sulle Eolie affermando che queste sarebbero dipese direttamente dalla Santa Sede.

Con l’andar degli anni i sovrani di Sicilia, anche di diversa dinastia, accresceranno a loro vantaggio i contenuti e l’efficacia della bolla e, ad un certo momento, si autodefiniranno legati apostolici mentre la Santa Sede farà di tutto per restringerne i termini e frenarne gli abusi, fino a definire falsa la bolla di Urbano II che invece era sostanzialmente vera.

Il concetto di Legazia Apostolica si affermerà con maggior consapevolezza tra i secoli XIV e XV e assumerà forme più decise di invadenza a cominciare dal Cinquecento. Per tutto il corso del 1600 e 1700 la diocesi di Lipari, dai pontefici dichiarata “immediatamente soggetta alla Santa Sede” diverrà il terreno di scontro tra i sovrani di Sicilia e la Santa Sede. Sarà allora, con inizio nel 1711, che esploderà la famosa “controversia Liparitana”.

Le isole Eolie nei due secoli precedenti al Sacco avevano fatto la spola fra il Regno di Sicilia ed il Regno di Napoli entrambi dipendenti dall’imperatore di Spagna rimanendo per la maggior parte del tempo nel Regno di Napoli e quindi il problema della Legazia, cioè di rappresentare una eccezione in Sicilia, non l’avevano avvertito. Essa comincia a porsi con l’arrivo di questa guarnigione ma esplode con violenza quando nel 1610 le Eolie vengono riaggregate alla Sicilia.

Ma se il re di Spagna, Filippo III, pensa con questa riunificazione di ricondurre le Eolie sotto la sua piena autorità, politica e religiosa, il papa Paolo V non solo è deciso ad opporvisi ma probabilmente pensa di utilizzare le Eolie come un grimaldello per scardinare questo istituto della Legazia che mal sopportava e, in questo disegno, la diocesi di Lipari doveva essere quella in cui il potere del papa si esercitava in maniera piena e senza nessuna remora. Quindi niente applicazione della Legazia Apostolica come raccomanda il cardinale Gallo, a nome del papa al vescovo di Lipari mons. Vidal.

Paolo V e Filippo III due visioni diverse sulle Eolie

 

Il conflitto fra Vescovato e Regno di Sicilia

Il primo problema a porsi, a pochi giorni dalla riaggregazione, è la richiesta di introdurre nella diocesi di Lipari il Sant’Uffizio dipendente dall’Inquisizione spagnola come era d’uso in Sicilia. E così il 16 aprile del 1611 il Cardinale Gallo a nome del papa riscrive a Mons. Vidal raccomandandogli di non permettere assolutamente questa intromissione. E di fronte alla energica resistenza del Vescovo i regi ministri minacciano “la destituzione dalla dignità episcopale e la soppressione della Sede –Cattedrale” e continueranno a farlo in seguito “non senza – dirà il suo successore – gravissimo percolo della sua vita”. Comunque negli ambienti politici ed amministrativi di Palermo, Mons. Vidal non era ben visto perché giudicato inaffidabile, un evasore di fatto, e quindi, osteggiato.

Queste tensioni, alcune anche di scarso rilievo ed effimere, si riflettevano nel microcosmo eoliano facendone un vero e proprio covo di vipere. Prima la guarnigione militare e poi anche le autorità civili e la nobiltà terriera e armatoriale, che mal subivano il pagamento dei censi e delle decime, cominciarono a percepire la figura del vescovo con fastidio e insofferenza, fino, qualche volta, a sfociare in gesti di aperta ostilità, a cui facevano riscontro reazioni durissime col solito ricorso a severissime scomuniche.

 

E non deve destare meraviglia se proprio la cerimonie religiose divennero il terreno più proficuo in cui questi sentimenti e queste tensioni presero a manifestarsi. Così da una parte i militari ed i nobili fecero della chiesa e della confraternita dell’Addolorata il loro luogo di incontro e tendevano a manifestare con cerimonie sfarzose il loro potere contrapponendosi a quelle che il vescovo officiava in Cattedrale. In particolare le cerimonie della Settimana Santa diventarono occasione di confronto e di competizione tanto da costringere il vescovo ad intervenire per porre un freno. Per tutta risposta la confraternita si adoperò perché la loro chiesa fosse promossa a Cappella di Regio patronato con cappellano indipendente dal vescovo e sottoposto direttamente alla Legazia Apostolica di Palermo.

Anche le situazioni più banali divennero occasione di conflitto e di scontro come l’uso del “chiomazzo”, un cuscino ricamato che metteva il vescovo sotto le ginocchia durante le celebrazioni, divenne occasione di contesa col capitano d’arme che se n’era fatto fare uno simile; oppure il colore del drappo sullo scranno del municipio in Cattedrale che i girati vollero rosso paonazzo mentre il vescovo riteneva che questo colore fosse distintivo degli abiti dei prelati; o la consuetudine che i pubblici ufficiali, nelle feste solenni, accompagnassero il vescovo dalla soglia del palazzo vescovile alla Cattedrale e viceversa, alla fine delle funzioni, che divenne occasione di dispetti e quindi di processi che si imbastivano dinnanzi al Tribunale civile del vescovo. Beghe paesane, frizioni locali che però si inserivano e acquisivano spessore nel più grande conflitto che si andava approfondendo quello cioè dello schierarsi con Palermo o con Roma, con lo Stato o con la Diocesi e la Santa Sede.

Tomba monumentale dedicata a Mons. Duval.

 

Questa situazione di tensione e di contrasti doveva essere subìta con sofferenza da un vescovo come Vidal che, proprio in nome della buona convivenza, aveva esentato dai tributi alla chiesa i nove decimi dei possessori dei terreni in enfiteusi ed aveva donato al Municipio diversi beni. Così a partire dal 1613, sentendosi logorato e con una piaga nella gamba che lo inficiava negli spostamenti, pur avendo solo 66 anni, declinò di andare a Roma per la consueta visita “ad limina” e cominciò a pensare alla propria morte che arrivò nel 1617.

Ma con la morte di Vidal lo scontro non si esaurisce anzi, fra alti e bassi, ebbe anche momenti drammatici come quando mons. Caccamo, successore del Vidal, accoltellò a morte, al culmine di una violenta discussione, il capitano d’arme o l’arresto, nella primavera del 1667 di mons. Arata, un grande e santo vescovo, che era venuto a Lipari con propositi di pacificazione e invece si vide costretto a scomunicare il capitano d’arme e per questo rimase nelle carceri di Palermo per tre mesi. Un conflitto che deflagrò il 22 gennaio 1711 nella cosiddetta “controversi liparitana” che scatenò – con arresti e scomuniche, espulsioni ed interdetti – una vera e propria guerra fra Regno di Spagna e Santa Sede coinvolgendo di fatto tutta la diplomazia europea. Una controversia che andò avanti per oltre dieci anni ma i cui epigoni giunsero fino alla costituzione dell’unità d’Italia.

L’interno della chiesa dell’Addolorata, malgrado conservi le tracce della riunificazione delle tre cappelle che erano all’origine effettuata seppellendo affreschi prenascimentali (come quelli che emergono, nella navata sinistra, ai lati dell’altare del Cristo alla colonna), è caratterizzato dalle eleganti decorazioni in stucco realizzate fra il XVII e il XIX secolo. Nella foto a destra: sullo sfondo della navata si staglia l’aquila imperiale dei sovrani di Spagna e si intravede l’altare del Cristo alla colonna statua in legno scolpito del XVIII secolo ripreso di fronte nella foto a sinistra.

Nel 1699 il vescovo Girolamo Ventimiglia, nel tentativo di recuperare la giurisdizione sulla Regia chiesa della Soledad, unì quest’ultima alle due cappelle a essa contigue, realizzando un unico luogo di culto, denominandolo chiesa dell’Addolorata. Il tentativo fu assolutamente vano, anzi sortì l’effetto di sfregiare e lasciar sfigurate le tre vecchie cappelle da intonaci e stucchi che seppellirono affreschi prerinascimentali.

Fu il vescovo Giovanni Maria Visconte Proto ad ottenere da Ferdinando II, re delle due Sicilie – ormai l’istituto della Legazia apostolica era agli epigoni – il rientro della chiesa sotto la giurisdizione dei vescovi con decreti reali del 1852 e del 1855.

 

Visita all’interno

L’altare dell’Addolorata con la bella statua del ‘600 ed alla base la varetta del Cristo morto nella bara.

La navata centrale culmina con l’altare dell’Addolorata realizzato in muratura e in legno con stucchi dorati. La statua dello stesso periodo ha il busto in legno, è avvolta in un ampio manto nero e sul vestito viene apposto un cuore con una piccola spada che lo trafigge. Alla base dell’altare maggiore c’è la varetta del Cristo morto nella bara, statua in gesso – una delle nove che sono portate in processione per le vie della cittadina la sera del venerdì santo – mentre nell’abside dello stesso altare, in due nicchie, una a destra ed una a sinistra vi sono due statue dell’Immacolata nel caratteristico abito azzurro e bianco.

 

 

 

 

 

La statua di destra, del XX secolo, in legno, è quella che è portata in processione la domenica di Pasqua tutta ricoperta da un grande manto nero da capo ai piedi che le cade, a Marina corta, fra il volo delle colombe, la musica della bande ed i colpi di mortaio, quando la processione dell’Addolorata incontra quella del Cristo risorto che viene dalla parte opposta della piazza.

Nella navata destra domina l’altare, in legno scolpito e dorato del XVIII secolo, con il dipinto in olio su tela raffigurante la Maddalena in adorazione del Cristo in croce opera dell’urbinate Federico Barocci databile fra il tardo 500 e il primo 600.

Sopra, l’altare, in legno scolpito e dorato del XVIII secolo, con il dipinto in olio su tela raffigurante la Maddalena in adorazione del Cristo in croce opera dell’urbinate Federico Barocci databile fra il tardo 500 e il primo 600. Sotto, sempre nella navata destra stazionano le varette del Cristo nell’orto degli Ulivi e del Cristo in croce.

 

Nella navata sinistra l’altare dell’Ecce Homo in legno scolpito e dipinto del XVII secolo mentre la statua in gesso è XVIII secolo. Nella stessa navata, subito appresso, un altare con la varetta del Cristo alla colonna. Ai fianchi dell’altare emergono dalle pareti stucchi rinascimentali che impreziosivano le pareti prima del 1699 quando avvenne la riunificazione delle tre chiesette.

Sull’entrata è installata la cantoria lignea e l’organo della metà del Settecento attribuito al liparese Emanuele Bongiorno.

Nella chiesa sono conservate altre opere di un certo valore artistico:

– la Presentazione di Gesù al tempio con Maria e Giuseppe, Simeone il Vecchio e la profetessa Anna; una tela di Girolamo Alibrandi detto anche Raffaello da Messina del XVI secolo. Originariamente il dipinto apparteneva alla chiesa della Purificazione detta dei “Bianchi”.

– Sant’Onofrio opera di Giovanni Barbera come risulta dall’iscrizione “Jovannes Barbera Mess. faciebat anno dom. 1743; collocato nella Sacrestia.

– Santa Teresa d’Avila, dipinto olio su tela, XVII secolo collocato sulla porta che dà alla Sacrestia.

 

– Sant’Andrea, olio su tela, XIX secolo, collocato all’inizio entrando della cappella di destra.

– Vescovo con pastorale, madre e bambino, olio su tela secolo XVII, collocato subito all’entrata della Chiesa sulla sinistra sotto il transetto.

 

In vari ambienti delle tre cappelle sono custodite le “vare” portate in processione per le strade della cittadina di Lipari la sera del Venerdì Santo.

Fra le varette questa bella rappresentazione di Gesù che cade sotto il peso della croce e l’aguzzino infierisce

 

Sul pavimento diverse lapidi in marmo bianco ed alcune decorate con tarsie policromiche indicanti le tombe di personaggi della Confraternita: capitani d’arme, congiunti, cappellani Comunque al di là della verità storica, sul portale sta scritto: “Piacque a Dio e a S. Bartolomeo togliere la carestia dalla città con un evidente miracolo”.